La triste e fosca vicenda dello stupro subito da Agostino Tassi sembra l’animazione di un dipinto del Caravaggio con uomini dai brutti ceffi, fantesche pronte a tutto e comprimari dagli sguardi di tenebra, ma da essa Artemisia attinge una forza inaudita e il capolavoro che dipingerà con quelle dita rattrappite per la tortura costituirà il suo riscatto e la sua vittoria: “Giuditta che decapita Oloferne”, opera possente, formidabile e spaventosa.
Il corpulento generale Oloferne, capo dell’esercito babilonese che stava assediando Israele, è disteso sul letto, ubriaco e preda di un sonno pesante; Giuditta, eroina ebrea, entra nella sua tenda insieme alla fantesca Abra, afferra spietata per i capelli la testa del nemico e mentre la sua complice lo tiene immobilizzato, lei gli affonda la spada nel collo.
Il sangue fuoriesce copioso ad impregnare il bianco del lenzuolo che appare sotto una luce cruda e sinistra; le vesti delle due donne, dai colori vividi (rosso cupo per la fantesca e blu oltremare per Giuditta) sono ritratte con realismo lenticolare, il chiaroscuro è drammatico, il gesto cruento.
Lo sguardo di Giuditta (che ricalca nelle fattezze quelle di Artemisia) è carico di eroica fierezza e di implacabile determinazione e la mano dello sgozzato e agonizzante Oloferne che afferra le vesti dell’ancella, è la stessa mano rapace che Agostino aveva premuto sulla bocca di Artemisia durante lo stupro.
Una narrazione carnale, che sa di sozzura e di scempio, di desideri proibiti e di vendette spietate: quella ragazza dall'animo incrudelito e dal talento abbacinante affida al pennello la sapiente declinazione della luce e dell’ombra per fissare sulla tela la rabbia, il livore e l’odio che l'opprimono. Il risultato è un capolavoro dall’impatto emozionale travolgente, dalla ruvida e tagliente cifra pittorica e dall’orrifico realismo.
Tante saranno le Giuditte dipinte nella storia dell’Arte (da Mantegna a Caravaggio, da Michelangelo a Klimt), ma in nessuno si riscontra quella gelida ferocia che appare nel dipinto di Artemisia, semplicemente perché nessuno di quei giganti della pittura, per quanto in vita avessero vissuto tormenti e angosce, aveva sperimentato l’orrore di uno stupro e il piacere gelido della vendetta.
L'opera fa scalpore e Artemisia ad appena diciannove anni assurge alle vette dell’Arte del suo tempo, ma balza anche agli onori, anzi, ai disonori della cronaca, additata da tutti, con morbosa curiosità, più per la nefanda vicenda dello stupro che per il suo strabiliante talento artistico […]
Daniela Musini
Questo breve brano è tratto dalla biografia completa “Artemisia la pittora” che le ho dedicato nel mio libro “Le Magnifiche. 33 donne che hanno fatto la storia d’Italia “(Piemme) Ps. “Pittora” perché così nel Barocco era definita un’artista che si dedicava alle arti figurative (il termine “pittrice” non esisteva allora), e così infatti Artemisia si autodefiniva
Nelle foto: la prima versione di “Giuditta decapita Oloferne” (in cui la protagonista indossa un abito blu) datata 1612/1613 (se non addirittura, a detta di alcuni critici, 1617) e conservata nel Museo Nazionale Capodimonte a Napoli.
La seconda versione del medesimo soggetto (con Giuditta che indossa un abito color oro) datata 1620 ca. la si può ammirare agli Uffizi di Firenze “Autoritratto come allegoria della pittura” dipinto fra il 1638/39 si trova a Londra, al Kensigton Palace.