L”Angelo di Roma” era un castrato.

L”Angelo di Roma” era un castrato.

Un secolo fa, esattamente il 21 aprile del 1922, spirava nella sua casa di via Plinio, nell’Urbe, Alessandro Moreschi, l’ultimo “soprano naturale” ad essersi esibito col prestigioso coro della Cappella Sistina e l’unico ad aver lasciato una registrazione della propria voce, effettuata a Londra nel 1904 da Gramophone and Typewriter.

L’ascolto su YouTube della sua “Ave Maria”, pur con tutti i limiti di una registrazione pionieristica, costituisce ancora un’esperienza che ha del mistico, tanto da farci capire la provocatoria risposta data nel 1965 dal maestro Igor Stravinsky a Papa Paolo VI, che gli chiedeva cosa potesse fare per il mondo dei melomani: “Santità, restituisca alla musica i castrati”. 

La rigidità della Chiesa post tridentina, nella seconda metà del XVI secolo, basandosi sull’interpretazione letterale del “Taceat Mulier in Ecclesia” presente nella lettera di San Paolo ai Corinzi, escogitò il crudele artificio di innestare una voce femminea e dalla purezza cristallina nella cassa toracica di uomini i cui genitori, anteponendo i vantaggi economici alla natura, avevano accettato di fare scempio dei figli, trasformandoli in eunuchi.

Tali operazioni, coi metodi dell’epoca, potevano anche portare a morte i malcapitati, i quali inoltre, venendo scelti spesso alla cieca quando erano ancora bambini, senza alcuna certezza sulle loro reali capacità artistiche, a volte subivano quell’orribile violenza senza nemmeno conseguire poi il ritorno economico auspicato.

Non fu il caso di Moreschi, nato a Montecompatri nel 1858 e “incomodato” (come si diceva allora) all’età di 8 o 10 anni dopo essere stato notato per la sua voce cristallina dal direttore del coro della Cappella Sistina che, fiutato l’affare, lo propose ai suoi genitori i quali fecero poi passare la tesi dell’incidente derivante dall’aggressione di un cinghiale.

Convocato nella Capitale, il nostro a soli 15 anni d’età fece il suo debutto come primo soprano nella Basilica Laterana, riscuotendo subito un trionfale successo.

Fra i tanti, la moglie dell’ambasciatore danese, dopo averlo udito cantare, scrisse che la sua voce “ha un che di sovrannaturale”.

Agli incarichi sempre più prestigiosi in Vaticano, Moreschi sommò quelli mondani perché tutti coloro che contavano, nell’alta società del tempo, se lo contendevano a suon di rialzi nelle offerte economiche.

L’apogeo della sua carriera però lo toccò il 9 agosto del 1900, quando cantò nel Pantheon durante la messa in suffragio di re Umberto I, ammazzato dieci giorni prima a Monza in un attentato, alla presenza di tutta la famiglia reale che lo ricompensò con un bellissimo orologio d’oro.

La parabola discendente iniziò per lui nel 1903 quando il nuovo Papa Pio X, con un “motu proprio”, decise di chiudere dopo oltre tre secoli e mezzo la controversa e dolorosa storia dei cantanti evirati imponendo che le voci di soprani e contralti fossero sostenute da fanciulli, ovviamente “integri”.

A Moreschi fu comunque consentito di continuare ad esibirsi sino al raggiungimento della pensione, nel 1913, per far udire al mondo e, seppur in minima parte, anche a noi “la musica che era stata di Farinelli”.

(Testo di Anselmo Pagani. Fra i commenti: l’Ave Maria cantata da Moreschi)

 

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