Leone Jacovacci nacque nello Stato Libero del Congo dalla lunga scintilla d’amore tra un agronomo italiano ed una ragazza africana.
Era il 1902 secondo i documenti ufficiali, ma è plausibile che il reale anno di nascita di Leone sia il 1900, a causa del ritardo nel censimento anagrafico molto frequente in quell’epoca ed a quella latitudine.
Nel 1905 i genitori presero la decisione di far crescere il figlioletto in Italia, lontano da un Congo sempre più preda degli umori da sterminio del monarca belga; vivere nei quartieri europei di Léopoldville stava divenendo sempre più arduo per quell’italiano che si accompagnava con una moglie africana ed un bimbo mezzosangue.
Così Leone fu spedito a vivere con i nonni paterni i quali, persone illuminate, per salvaguardare il bimbo meticcio dagli sguardi sprezzanti della Roma borghese del tempo si dovettero trasferire nella meno popolata Viterbo.
Con grandi difficoltà di integrazione, non favorita da compagni di classe ed insegnanti, Leone giunse alla licenza elementare.
Morta la sua adorata nonna, vide ritornare in patria il padre il quale non aveva più ragione per rimanere nel crudo continente nero; la madre di Leone, infatti, era morta nelle baracche per la malattia del sonno, senza che egli la potesse più riabbracciare.
Nel 1916, stanco di un paese che non lo accettava e, ancor più plausibilmente, sentendo un richiamo esotico per l’esplorazione, Leone prese il mare a Napoli, in qualità di mozzo di bordo.
Nel 1919, mentre vagabondava per Londra, un organizzatore di incontri da luna park, notata la sua scultorea prestanza fisica, gli offrì un combattimento da disputarsi in serata, che prevedeva lo scontro tra un bianco ed un nero.
Leone accettò senza essere mai salito sul ring prima d’allora.
Non era la prima volta in cui si era già dovuto misurare coi pugni; lo aveva già fatto con chi non gradiva la sua pelle per le strade di Roma, prima, e nell’esercito inglese in quegli ultimi anni.
Così ebbe inizio la carriera sul ring di Leone Jacovacci.
Il suo nome, però, aveva già subito dei mutamenti: negli ultimi tre anni si era chiamato John Douglas Walker ed era un soldato afro-britannico arruolatosi nel 1917 e che aveva combattuto sul fronte russo.
Scelse di cambiare nuovamente e si nominò Jack Walker, pugile afro-americano, e con quelle generalità diede inizio alla sua carriera sul ring.
Confinato in incontri periferici dall’impossibilità dei neri di combattere ad alto livello, Leone diede nuovamente ascolto al proprio spirito nomade, decidendo di attraversare la Manica per raccogliere la sfida dei quadrati francesi.
Nel paese transalpino conobbe fama ed agiatezza grazie ai tanti trionfi, ma la sua falsa identità pesava come un macigno sul suo incerto futuro.
Nel 1925 stupì il mondo del pugilato con la propria pubblica ammissione: il pugile afro-americano Jack Walker era in realtà Leone Jacovacci, di padre romano e madre congolese, cresciuto a Viterbo ed educato in un collegio capitolino.
Il suo accento trasteverino era, comunque, già stato carpito da molti spettatori del bordo ring, durante gli incontri sostenuti a Milano, a quel tempo capitale europea della boxe.
Se il pubblico accolse favorevolmente un nuovo grande campione, i burocrati, che come oggi sono la peggior espressione del Paese, misero paletti e fecero ostruzione al suo tesseramento da pugile italiano.
Il 16 ottobre del 1927, il campione milanese Mario Bosisio, che aveva raccolto la sfida di Jacovacci per il titolo italiano, vinse ai punti una sfida che, a detta di moltissimi spettatori e giornalisti, aveva invece perduto: il colore della pelle precludeva a Leone un traguardo meritato e raggiunto a tutti gli effetti.
Sei mesi più tardi, questa volta a Roma, Leone Jacovacci dominava la rivincita con Bosisio, il quale era un grande pugile, con in palio anche il titolo europeo dei medi.
Il braccio alzato del pugile italiano di colore, che non figura in alcuna foto ufficiale dell’incontro, fu uno smacco ai serpeggianti sentimenti razzisti dell’Italia coloniale.
La Gazzetta dello Sport, il giorno successivo, paventò dubbi sull’opportunità per l’Italia di essere rappresentata da un meticcio, ferendo profondamente l’atleta che aveva vinto meritatamente sul ring.
Per altri due anni, i grandi successi di Leone furono stravolti dai verdetti di giudici accecati dalle direttive di un’Europa ingiusta ed iniqua.
In anticipo sulle leggi razziali che il Partito Fascista stava per promulgare, Leone si trasferì nuovamente in Francia, terminando la propria straordinaria carriera all’incontro centocinquanta cinque.
Fino alla fine aveva risposto alle chiamate a combattere di tutta Europa, ma il distacco della retina rendeva un supplizio ogni match.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Leone Jacovacci tornò a chiamarsi John Douglas Walker e raggiunse, non senza fatica, l’Inghilterra, allo scopo di arruolarsi nel vecchio battaglione e dare il proprio contributo per opporsi al dilagare del nazismo.
Con la sconfitta dei tedeschi, entrò nuovamente in Italia, a Milano, con la divisa britannica, aiutando i molti profughi creatisi col caos bellico.
Con spirito di sostentamento, per sé e per la propria famiglia, nei duri anni del dopoguerra si dedicò al wrestling in itinere per i teatri meneghini, facendo sempre onore, sebbene più che sessantenne, alla propria grande combattività.
Infine, senza tante cerimonie, il campione d’Italia e d’Europa dei pesi medi cadde nel dimenticatoio.
Silente e solitario portiere di uno stabile di via Ghibellina, a Milano, arrivò al crepuscolo della propria vita in povertà e gravemente malato di cuore.
Con gli occhi fissi sulla strada, poteva apparire ai più come un malinconico anziano dall’aspetto tropicale.
A nessuno è dato sapere se dietro il suo sguardo immobile ci fossero i ricordi dei combattimenti col 53mo Battaglione Bedfordshire, oppure i feroci scontri coi migliori pugili d’Europa, o i mari solcati, o la fame patita. Oppure le tante ingiustizie sopportate.
Ad oltre ottant’anni d’età, il grande spirito battagliero di Leone Jacovacci si spense nel silenzio che spesso accompagna gli uomini più straordinari.
Di lui restano i ricordi conservati dalla figlia Nicole, poche immagini pubbliche, nessuna proprietà, ma ne è palpabile anche ai giorni correnti l’esempio di uomo caparbio, mai arresosi alle prevaricazioni di una società dura ed immatura.
Grazie per leggere i miei racconti sulle leggende della boxe